Memoria di libertà: Volterra e Lucaroni, 80 anni dopo la Liberazione
- Prof. Romina
- 25 apr
- Tempo di lettura: 11 min
Aggiornamento: 26 apr
Il funerale in solitudine di un genio della scienza (1940)

Ottobre 1940, Roma. Un feretro avanza verso il cimitero di Ariccia, accompagnato da pochissimi intimi. È il funerale di Vito Volterra, uno dei più grandi scienziati italiani, eppure nessuna autorità è presente, nessuna cerimonia ufficiale lo onora. A seguire la bara ci sono solo tre colleghi matematici: Guido Castelnuovo, Federigo Enriques e Raffaele Lucaroni – quest’ultimo l’unico non ebreo del gruppo. Quella scena malinconica di un funerale quasi clandestino contrasta dolorosamente con la statura del defunto. Volterra era stato un gigante della matematica e della fisica teorica, celebre internazionalmente, senatore del Regno e fondatore di istituzioni scientifiche come il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Eppure, in quell’autunno 1940, il regime fascista lo aveva ridotto al silenzio e all’isolamento, cancellando dai riflettori la sua figura scomoda. A differenza di altri scienziati osannati dal regime (basti pensare al trionfale cordoglio nazionale tributato a Guglielmo Marconi nel 1937), la morte di Volterra passò sotto silenzio: nessun necrologio sulla stampa di regime, nessuna commemorazione nelle accademie ufficiali, nessun funerale di Stato. Solo quel piccolo corteo di amici coraggiosi rese omaggio alla coerenza di un uomo libero, punito per non essersi piegato alla dittatura.
Lo scienziato che disse no al fascismo
Chi era Vito Volterra e perché fu emarginato in vita dal suo Paese? Nato nel 1860, Volterra fu un matematico di fama mondiale, pioniere dell’analisi funzionale e docente brillante sin da giovanissimo. Nel 1905 era stato nominato senatore per meriti scientifici e nel 1923 aveva contribuito a fondare e presiedere il CNR. Ma oltre che scienziato di prim’ordine, Volterra fu un cittadino con un forte senso etico e civile. All’ascesa del fascismo, non esitò a opporsi: nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce. Soprattutto, quando nel 1931 il regime impose ai professori universitari un giuramento di fedeltà al fascismo (atto di sottomissione ideologica senza precedenti nella scuola italiana), Volterra compì “il gran rifiuto”. In coscienza non poteva giurare lealtà a una dittatura che disprezzava la libertà di pensiero, e lo dichiarò apertamente in una lettera al rettore:
“La S.V. comprenderà quindi come io non possa in coscienza aderire all’invito […] relativo al giuramento dei professori.” Vito Volterra, 18 novembre 1931
Con questo gesto, Volterra si mise contro il regime sapendo di pagarne le conseguenze. Infatti fu immediatamente radiato dall’insegnamento universitario e privato della sua cattedra. Su oltre 1200 docenti universitari italiani, meno di venti ebbero il coraggio di rifiutare quel giuramento servile; tutti gli altri piegarono il capo pur di conservare il posto. Volterra divenne dunque uno dei pochissimi professori “disobbedienti” e fu trattato da nemico: espulso dall’università, nel 1934 venne anche estromesso dall’Accademia dei Lincei, di cui era membro eminente, per aver rifiutato un analogo giuramento imposto ai soci. Nel frattempo il regime tentava di oscurarne il nome: la presidenza del CNR, che Volterra aveva fondato, fu riassegnata a persone gradite al fascismo (dal 1927 al 1937 fu Guglielmo Marconi, vicino al regime).
Alle persecuzioni politiche si aggiunsero presto quelle razziali. Volterra era ebreo, e nel clima avvelenato delle leggi razziali del 1938 la sua figura fu doppiamente sgradita al fascismo: dissidente e per di più appartenente a una minoranza messa al bando. Sebbene, paradossalmente, in quanto senatore fosse formalmente esentato da alcune misure antiebraiche (per “discriminazione regia” i senatori di “razza ebraica” non furono espulsi dal Senato), Volterra visse gli ultimi anni sostanzialmente in esilio interno, lontano dalle istituzioni italiane. Trascorse parte del tempo all’estero, in Francia e Spagna, mantenne contatti scientifici internazionali ma vide la sua patria voltargli le spalle. Eppure non perse mai la dignità né la fiducia nei valori della scienza e della libertà. Emblematico è il motto che scrisse di suo pugno sotto una sua fotografia negli anni Trenta, quasi a sfidare la retorica fascista: “Muoiono gli imperi, ma i teoremi di Euclide conservano eterna giovinezza”. In questa frase – destinata a diventare il suo epitaffio – c’è tutta la fierezza di Volterra: le dittature e i loro imperi di cartone sono effimeri, mentre la verità e la conoscenza che scaturiscono dal libero pensiero durano in eterno.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, isolato e amareggiato, Volterra rientrò a Roma solo poco prima di morire (l'11 ottobre 1940). La sua scomparsa avvenne dunque in un’Italia in piena guerra, soggiogata dalla propaganda. Le istituzioni accademiche e politiche fasciste ignorarono volutamente la morte di colui che consideravano un sovversivo. Ma alcuni colleghi antifascisti non lo dimenticarono: Castelnuovo, Enriques e il fidato assistente Lucaroni sfidarono il clima ostile per rendergli omaggio nel silenzio generale. Quell’ultimo gesto di solidarietà sanciva un passaggio di testimone ideale: se Volterra rappresentava la coscienza critica del mondo scientifico italiano sotto il fascismo, Raffaele Lucaroni ne avrebbe raccolto l’eredità morale negli anni bui successivi.
Un assistente antifascista e altruista: la figura di Raffaele Lucaroni
Raffaele Lucaroni è un nome poco noto al grande pubblico, ma incarna la schiera di uomini e donne che, lontano dai riflettori, scelsero la rettitudine e la resistenza civile in ambito accademico. Nato nelle Marche nel 1887, Lucaroni era un matematico di talento. Giunto a Roma, ricoprì vari incarichi come assistente presso la Sapienza, nelle cattedre di geometria e analisi matematica. Era stimato come insegnante efficace e preparatissimo, tanto che il professor Castelnuovo lo definì “insegnante efficacissimo ben noto a Roma”. Eppure la sua carriera accademica non decollò mai realmente, per una scelta di coscienza: fin dall’inizio rifiutò di iscriversi al Partito Nazionale Fascista e di prendere la tessera del regime. In un’epoca in cui l’adesione al fascismo era praticamente obbligatoria per fare carriera pubblica, quel rifiuto significò per Lucaroni essere tagliato fuori dall’università statale. Negli anni Trenta poté lavorare solo in istituti scolastici privati, ai margini dell’Accademia ufficiale. Fu il prezzo della coerenza pagato da un uomo libero e "refrattario a ogni dogma o condizionamento ideologico".
Nonostante l’ostracismo, Lucaroni non abbandonò i suoi ideali né il suo amore per l’insegnamento. Quando nel 1940 accompagnò Volterra nel suo ultimo viaggio, non fu solo un gesto di affetto verso il maestro della matematica italiana, ma anche una silenziosa dichiarazione di antifascismo. In chiesa e al cimitero quel giorno Lucaroni camminava accanto a due eminenti colleghi ebrei (Castelnuovo ed Enriques), in un’Italia dove gli ebrei erano perseguitati: un atto semplice ma carico di significato. Rifiutare l’odio razziale e restare leale all’amicizia e alla scienza era, per Lucaroni, del tutto naturale.
Pochi mesi dopo, l’Italia precipitò nel conflitto mondiale e la morsa della persecuzione antiebraica divenne più cruenta. Nel 1941 le leggi razziali escludevano già da anni gli studenti e i docenti ebrei da scuole e atenei, Decine di giovani si erano visti espellere dall’università semplicemente perché “di razza ebraica”. Fu allora che Guido Castelnuovo – anche lui matematico di fama e colpito nei diritti civili perché ebreo – decise di reagire in modo creativo: organizzare un’università clandestina per quegli studenti esclusi. Approfittando di un appiglio legale (la possibilità di far sostenere esami finali presso un istituto universitario svizzero, il Politecnico di Friburgo, che ammetteva studenti stranieri senza obbligo di frequenza) Castelnuovo radunò un gruppo di colleghi disposti a tenere corsi segreti a Roma, così che i ragazzi ebrei potessero continuare gli studi nonostante i divieti fascisti.

Lucaroni fu tra i primissimi ad aderire all’iniziativa. Nel dicembre 1941 iniziarono a Roma, in gran segreto, i “Corsi integrativi di cultura matematica” rivolti a studenti ebrei. C’erano circa 25 studenti iscritti al primo anno clandestino. Castelnuovo insegnava matematica e meccanica, affiancato da Lucaroni e da un altro giovane matematico antifascista, Giulio Bisconcini. Raffaele Lucaroni teneva le lezioni di Geometria analitica e descrittiva, mettendo a disposizione la sua competenza didattica per quei ragazzi ingiustamente cacciati. Insieme a lui insegnavano, senza alcun compenso e rischiando grosso, anche la chimica Maria Piazza, l’ingegnere Giulio Supino, il fisico Nestore Cacciapuoti ed altri, e perfino la giovane Emma Castelnuovo (figlia di Guido Castelnuovo) partecipava come assistente alle esercitazioni. Le lezioni si tenevano in luoghi nascosti (per un periodo in un edificio in Trastevere) e ovviamente era fondamentale la massima discrezione. Eppure, nonostante la tensione di doversi guardare dalla polizia fascista, tra docenti e studenti si creò un clima sereno e solidale: era una “scuola separata” ma vissuta con dignità e persino con entusiasmo, perché rappresentava un’oasi di libertà nel cupo panorama della Roma razzista.
Proprio Emma Castelnuovo, molti anni dopo, ricordò con ammirazione l’esperienza di quei corsi clandestini. Sottolineò il coraggio dei pochi professori “ariani” (non ebrei) che accettarono di rischiare la vita per aiutare i loro colleghi e allievi ebrei. Disse: «a distanza di tanti anni […] voglio sottolineare il coraggio di tre insegnanti ariani – G. Bisconcini, R. Lucaroni, B. Cacciapuoti – che, durante due anni, hanno veramente rischiato la vita dando, con la loro opera, un esempio bellissimo di didattica formativa». In altre parole, Lucaroni e gli altri fecero molto più che insegnare matematica: testimoniarono coi fatti i valori di uguaglianza, libertà e solidarietà, dando ai giovani un imprinting educativo indelebile. Non a caso, uno di quegli studenti ricordò che il prof. Lucaroni, finite le lezioni, portava i ragazzi a bere un bicchiere in osteria e lì proseguiva – in modo informale – a insegnare antifascismo, parlando di idee socialiste e libertarie tra una gazzosa e un sorriso. Era un modo per formare non solo ingegneri e matematici, ma cittadini consapevoli, immuni alla propaganda del regime.
L’“università clandestina” durò fino all’estate 1943. In due anni accademici (1941-1942 e 1942-1943) quei 25 studenti seguirono tutti i corsi previsti per i primi due anni di Ingegneria. Superarono gli esami finali (sostenuti formalmente sotto la supervisione dell’istituto svizzero) e quando Roma fu liberata, grazie anche all’intervento di Guido Castelnuovo presso il nuovo Ministero dell’Educazione, quegli esami vennero riconosciuti validi. Nel 1944 gli studenti poterono rientrare all’Università di Roma e completare gli studi regolari, conseguendo poi la laurea in Ingegneria o in Matematica. Si trattò di un successo importante: in mezzo alla persecuzione, era stata salvata una generazione di giovani studiosi che altrimenti avrebbe perso anni di formazione. Di questo successo Lucaroni fu parte integrante, sebbene – per sua indole schiva – non amasse vantarsene.
Resistere nell’ombra: l’etica di Lucaroni durante l’occupazione
Dopo l’8 settembre 1943 la situazione precipitò ulteriormente. Con l’occupazione nazista di Roma (settembre 1943 – giugno 1944) gli ebrei e gli antifascisti rimasti in città corsero pericoli mortali: i primi braccati per la deportazione nei campi di sterminio, i secondi ricercati per la repressione politica. Fu in quel contesto drammatico che Raffaele Lucaroni dimostrò un coraggio ancora maggiore. Mentre il fronte della guerra risaliva la penisola, lui trasformò la propria casa in un rifugio segreto. Nell’appartamento di Lucaroni, nel quartiere Prati di Roma, trovarono salvezza diversi perseguitati: ebrei nascosti sfuggiti ai rastrellamenti del ottobre ’43, antifascisti ricercati dalle SS, giovani renitenti alla leva della Repubblica di Salò. Aprire la porta di casa significava esporsi a rischi enormi: se scoperto, Lucaroni avrebbe probabilmente fatto la stessa fine dei suoi protetti. Eppure, guidato da un profondo senso di umanità, non si tirò indietro.
Un aneddoto emblematico racconta come protesse persino i beni di una famiglia ebrea amica. Si tratta della famiglia di Guido Castelnuovo stesso (suo mentore e collega nei corsi clandestini). Nel caos seguito all’armistizio, Castelnuovo – in quanto ebreo noto – dovette nascondersi fuori Roma assieme ai suoi cari, per evitare la cattura nazista. Prima di lasciare la città, la famiglia affidò a Lucaroni un piccolo patrimonio in denaro e preziosi, frutto dei risparmi di una vita. Lucaroni escogitò un nascondiglio ingegnoso: nascose quel tesoretto dentro la base di una lampada, sul tavolo del suo studio. La lampada rimase accesa e in bella vista, frequentata solo dai gatti della moglie, per tutto il periodo dell’occupazione – senza che i tedeschi potessero immaginare che al suo interno si celava il salvadanaio dei Castelnuovo. Ogni vita salvata, ogni bene protetto, fu il frutto di scelte coraggiose compiute nell’ombra da persone come Lucaroni.
Queste vicende rivelano il profilo etico di Raffaele Lucaroni: un galantuomo antifascista che mise a repentaglio la propria sicurezza per aiutare il prossimo perseguitato.
E lo fece senza secondi fini, senza cercare gloria. Anzi, con uno spirito quasi anarchico e antiborghese: ospitando ricercati, insegnando clandestinamente e rinunciando a qualsiasi compromesso, Lucaroni seguì solo la propria coscienza. Il valore etico delle sue scelte sta tutto qui – nella capacità di anteporre i principi di giustizia e umanità alla convenienza personale, perfino nelle circostanze più estreme.
Dopo la Liberazione: gloria ai compromessi, oblio per i giusti?
Con la Liberazione di Roma (giugno 1944) e la fine della guerra (1945), ci si sarebbe potuti aspettare che figure come Lucaroni ricevessero finalmente il giusto riconoscimento. Purtroppo non andò esattamente così. Nel dopoguerra, l’Università italiana in gran parte tornò nelle mani di quei professori “baroni” che si erano adattati al fascismo. Molti tra coloro che nel 1931 avevano docilmente giurato fedeltà al regime – e parliamo di quasi tutta la classe docente, oltre mille e duecento professori – conservarono le proprie cattedre e ripresero il controllo degli atenei, come se nulla fosse. In alcuni casi ci furono episodi di epurazione e sostituzione ai vertici, ma furono spesso temporanei. La normale amministrazione universitaria, già dal 1945-46, vide ancora protagonisti parecchi accademici compromessi col ventennio, che recuperarono prestigio e incarichi istituzionali. Insomma, la continuità prevalse sul rinnovamento.
Raffaele Lucaroni, invece, restò ai margini del sistema accademico, esattamente dov’era prima. Nel dopoguerra continuò a lavorare come assistente universitario precario, aiutando generazioni di studenti con esercitazioni e lezioni private, senza mai ottenere una cattedra propria. Non gli fu conferito alcun titolo onorifico né venne pubblicamente celebrato come avrebbe meritato. Addirittura, per molti anni non godette neppure di una pensione adeguata: raggiunse la vecchiaia “senza un briciolo di pensione”, proprio a causa del suo passato da antifascista non allineato. Vivendo modestamente delle sole lezioni, non cercò mai privilegi né ricompense per ciò che aveva fatto durante la Resistenza. Era nella sua natura schiva non mettersi in mostra. Ma col senno di poi stride l’ingiustizia di vedere un uomo così giusto e generoso cadere nell’oblio, mentre colleghi molto meno integri riottenevano prestigio.
Basti pensare che nel primo dopoguerra la stampa e l’editoria scientifica quasi non parlarono di Lucaroni. Solo a distanza di decenni alcuni storici della matematica ne hanno ricostruito la biografia e le gesta. Persino le istituzioni, nel fervore della ricostruzione, furono lente nel tributare onori a persone come lui. Lucaroni morì a Roma il 27 gennaio 1968, a 81 anni, povero ma circondato dall’affetto di ex studenti e di chi lo conosceva come uomo integerrimo. Ironia della sorte, la data della sua morte – il 27 gennaio – decenni dopo è stata scelta come Giorno della Memoria in ricordo delle vittime della Shoah. E proprio nella legge istitutiva di tale ricorrenza (L. 211/2000) il Parlamento ha voluto onorare, oltre ai martiri, anche i “giusti”: coloro che si opposero ai progetti di sterminio, e a rischio della propria vita salvarono altre vite o protessero i perseguitati. Senza volerlo, Lucaroni ha avuto così un tardivo riconoscimento morale collettivo: il suo esempio rientra a pieno titolo in quelle azioni eroiche ricordate ogni 27 gennaio, anche se il suo nome resta poco conosciuto.
L’eredità di Volterra e Lucaroni: educare al coraggio civile
Nel celebrare l’80º anniversario della Liberazione d’Italia (25 aprile 1945 – 25 aprile 2025), storie come quelle di Vito Volterra e Raffaele Lucaroni ci invitano a riflettere sul significato profondo della parola libertà. La Liberazione non fu soltanto un evento militare o politico, ma il risultato di innumerevoli atti di coraggio civile messi in atto da persone comuni: partigiani sulle montagne, certo, ma anche professori e studenti nelle aule, impiegati negli uffici, cittadini nelle loro case. Volterra e Lucaroni, nel mondo dell’educazione e della scienza, incarnarono questa resistenza dei valori. Con mezzi differenti – l’uno rifiutando pubblicamente di piegarsi al regime, l’altro operando silenziosamente per salvare vite e conoscenza – entrambi difesero la dignità umana contro la tirannia.
Il valore simbolico delle loro scelte etiche è straordinario. In un contesto in cui conformismo e opportunismo prevalsero (pochi altri docenti ebbero il loro coraggio nel mondo accademico, essi dimostrarono che è possibile dire no, anche quando tutti dicono sì, e restare fedeli ai propri principi pagando di persona. Questi esempi sono preziosi soprattutto per i giovani e per la scuola di oggi. Ricordarli significa educare al coraggio civile: insegnare che la libertà di cui godiamo è frutto del sacrificio di persone che hanno saputo anteporre il bene comune alla propria carriera o sicurezza. Volterra perse il lavoro e la patria accademica pur di non tradire la libertà della scienza; Lucaroni rinunciò a vantaggi materiali e rischiò la vita pur di aiutare il prossimo e preservare il sapere. Entrambi ci consegnano una lezione di integrità.
Fare memoria di queste vicende non è un esercizio retorico, ma un impegno verso il futuro. Significa trasmettere alle nuove generazioni la consapevolezza che democrazia e diritti si difendono anche con piccoli-grandi gesti quotidiani di coraggio e responsabilità. Nell’aula universitaria come nella società, servono persone capaci di scegliere la via giusta e non quella facile. Volterra e Lucaroni ce lo insegnano attraverso la loro vita. A ottant’anni dalla fine del giogo fascista, il modo migliore per onorarne la memoria è quello di farne esempi vivi: raccontare nelle scuole la storia del matematico che preferì perdere tutto anziché giurare il falso e quella del suo assistente che salvò studenti ed ebrei senza chiedere nulla in cambio. Sono storie di libertà della cultura e di coraggio civile che meritano di essere conosciute da tutti.
In conclusione, l’anniversario della Liberazione ci richiama non solo a ricordare la conquista della libertà nel 1945, ma anche a rinnovare un patto educativo: quello di coltivare la memoria e i valori democratici, affinché il sacrificio di uomini come Volterra e Lucaroni non sia stato vano. Come scrisse Volterra, gli imperi muoiono ma le idee di libertà, se custodite e tramandate, conservano eterna giovinezza.
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